Di cavità a misura d’uomo se ne trovano anche nei ghiacciai. Oggi se ne sa certamente di più rispetto a quando verso la fine dell’‘800 Agassiz e Vallot esplorarono per primi le porzioni più superficiali delle profondità glaciali alpine; tuttavia, la speleogenesi nei ghiacciai rimane ancora oggi oggetto di grande dibattito scientifico. Per iniziare correttamente a comprendere i meccanismi 
di speleogenesi glaciale, occorre innanzitutto fare alcune osservazioni sulle caratteristiche e sulla dinamica di un ghiacciaio.
Per cominciare va detto in primo luogo che un ghiacciaio è un elemento morfologico mutevole nel tempo dalla scala temporale geologica a quella di qualche ora. Questo significa che anche le cavità presenti nella massa glaciale subiscono modificazioni di forma fin’anche una completa eliminazione. Per dare qualche cifra, si pensi che i ghiacciai delle regioni temperate, come possono essere quelli alpini, hanno velocità di movimento verso valle che variano da qualche decina a qualche centinaia di metri all’anno, mentre in alcune zone dell’Alaska o del Canada alcuni ghiacciai definiti “surging glaciers” arrivano ad assumere velocità superiori a 100 m al giorno! Tuttavia, in uno stato di equilibrio teorico del sistema, dove l’alimentazione di neve (prevalente nelle porzioni a monte) e lo scioglimento (prevalente verso valle) si eguagliano, la posizione di un fronte glaciale non subisce spostamenti assoluti verso valle.
La capacità di movimento di una massa glaciale è data dalla sua plasticità che dipende a sua volta da molteplici variabili quali temperatura, spessore del ghiacciaio, inclinazione del substrato roccioso. Non tutto il corpo di un ghiacciaio tuttavia può essere considerato plastico, la formazione di spaccature superficiali quali i crepacci sono infatti un evidente esempio di comportamento rigido.
Nei ghiacciai temperati, un elemento importante è l’acqua che deriva ad esempio dalla fusione delle porzioni superficiali del ghiacciaio durante l’estate. Essa crea sia in superficie che entro la massa ghiacciata, un reticolo di drenaggio che giunge talora fino alle zone di fronte del ghiacciaio dove genera un torrente glaciale. Come accade sulla roccia, l’acqua crea nel suo percorso sulla superficie del ghiacciaio, una serie di canali profondi anche decine di metri e dall’andamento talora meandrante, definiti “bédières”. Le acque di questi canali, scorrendo anche per centinaia di metri, si immettono frequentemente in pozzi di ghiaccio detti “mulini glaciali” profondi anche 200 m, attraverso i quali l’acqua può diffondersi nella massa glaciale. Essi costituiscono probabilmente tra i più spettacolari e meglio conosciuti esempi di grotte glaciali. L’acqua che si infiltra nel corpo del ghiacciaio, forma canali e serbatoi interni detti “cavità endoglaciali” che subiscono oscillazioni stagionali delle loro dimensioni. Va precisato che, contrariamente a quanto avviene per il processo carsico, dove l’acqua svolge un’azione prettamente di tipo chimico, nella genesi delle grotte glaciali il processo è invece puramente fisico; l’acqua infatti penetrando nelle fessure di un ghiacciaio porta a fusione il ghiaccio delle pareti provocando il progressivo allargamento delle cavità preesistenti.